Per la recente pronuncia Cass. civ., Sez. I, ord., 20 maggio 2020, n. 9141, rel. Andrea Fidanzia, la valutazione del carattere della rimessa affluita in conto va svolta sul saldo epurato degli indebiti (c.d. saldo rettificato) e non sul saldo risultante dagli estratti conto (il c.d. saldo banca).

Il probema è noto. Da molto la giurisprudenza di merito si chiede se, nell’azione di ripetizione di indebito, la valutazione della rimessa affluita in conto debba intervenire sul saldo nominale risultante dalle evidenze contabili della banca, come annotate negli estratti conto (il c.d. “saldo banca”), e quindi prima di qualsiasi rettifica e di qualsiasi elisione di annotazioni indebite, o se, invece, la rimessa, ed il suo carattere solutorio, vadano individuati sul saldo rettificato ed epurato degli indebiti (c.d. “saldo rettificato“).

La distinzione è particolarmente rilevante ai fini della prescrizione, perché, in caso di valutazione del carattere della rimessa sul saldo rettificato, lo storno progressivo di indebiti non dovuti potrebbe aumentare il saldo a credito del cliente, fino a tramutare rimesse che sul saldo banca avrebbero avuto natura solutoria – perché intervenute su un saldo nominale a debito immediatamente esigibile – in rimesse non aventi tale carattere – perché apprezzate su un saldo incrementato a credito a seguito degli storni – e, pertanto, non soggette al termine di prescrizione decorrente dall’accreditamento in conto.

Sul punto è adesso intervenuta la decisione di Cass. civ., Sez. I, ord., 20 maggio 2020, n. 9141, rel. Andrea Fidanzia, per la quale ogni valutazione va svolta sul saldo rettificato.

Di seguito il passaggio saliente della pronuncia.

“La banca ricorrente, nel censurare che la sentenza impugnata (alla luce delle conclusoni del CTU), ha individuato le rimesse solutorie sulla base del ‘legittimo saldo’ rideterminato dal CTU, e non in relazione alle (debite o indebite) annotazioni della banca, ovvero sulla base del ‘saldo banca’, finisce, in sostanza, per contestare infondatamente la rideterminazione del saldo del conto corrente correttamente disposta dalla Corte d’Appello allo scopo di eliminare – in ossequio a quanto disposto dalla sentenza delle S.U. n. 24418/2010 – ogni forma di capitalizzazione degli interessi debitori, e senza, peraltro, neppure aver proposto sul punto motivo di gravame.

Proprio per sterilizzare l’effetto della capitalizzazione, la Corte d’Appello ha correttamente recepito il percorso ricostruttivo del CTU, il quale, dopo aver eliminato gli addebiti indebiti, ha ricalcolato separatamente sia gli interessi intrafido che quelli extrafido, ricongiungendoli al saldo capitale alla chiusura del conto o alla prima rimessa dopo la scadenza dell’affidamento. La Banca ricorrente ritiene erroneamente che, per ottenere l’effetto della irripetibilità del pagamento indebito rispetto al quale è maturata la prescrizione, nel procedere alla rideterminazione del saldo del conto corrente ed alla individuazione delle rimesse solutorie, si debbano mantenere le indebite annotazioni effettuate dallo stesso istituto di credito.

E’ invece evidente che, per verificare se un versamento effettuato dal correntista nell’ambito di un rapporto di apertura di credito in conto corrente abbia avuto natura solutoria o ripristinatoria, occorre, all’esito della declaratoria di nullità da parte dei giudici di merito delle clausole anatocistiche, previamente eliminare tutti gli addebiti indebitamente effettuati dall’istututo di credito e conseguentemente determinare il reale passivo del correntista e ciò anche al fine di verificare se quest’ultimo ecceda o meno i limiti del concesso affidamento. L’eventuale prescrizione del diritto alla ripetizione di quanto indebitamente pagato non influisce sulla individuazione delle rimesse solutorie, ma solo sulla possibilità di ottenere la restituzione di quei pagamenti coperti da prescrizione”.

Da una parte, è vero che l’invalidità è categoria giuridica che opera retroattivamente e che la sentenza che la accerti ha natura dichiarativa e non costitutiva, per cui non sarebbe peregrino procedere ad un’analisi dell’andamento del rapporto depurandolo dalle appostazioni frutto di clausole nulle o inefficaci, e solo dopo procedere all’individuazione della reale natura della rimessa. Ma, d’altra parte, come qualcuno ha osservato, ciò potrebbe avere l’effetto paradossale di escludere la sussistenza di pagamenti ripetibili in un conto rettificato, facendolo risultare a credito permanente. Del resto, di regola, il pagamento indebito interviene di per sé in una situazione di apparenza giuridica.

Se logicamente giudicassimo del carattere solutorio del trasferimento patrimoniale che chiamiamo “pagamento” solo dopo aver fatto caducare il titolo giuridico, allora, in astratto, potremmo anche non avere un pagamento, perché faremmo caducare preliminarmente la stessa obbligazione (valida o viziata che sia). Invece, le due valutazioni sono quantomeno concomitanti: in tanto ci sarà un pagamento in quanto, in astratto, tale atto risulti dovuto.

La sentenza in commento ha allora, forse, il difetto di giudicare di una realtà artefatta, aggiustata all’interno del processo dal CTU, e non della realtà di fatto vera, come effettivamente manifestatasi nel rapporto banca/cliente. Una realtà che ben può risultare soltanto apparente e basarsi su una pretesa invalida o viziata. Per usare un esempio forte, la stessa pretesa di rimborso dell’usurario è una pretesa invalida, ma reale ed effettiva e, nella sua effettività e concretezza fattuale, può comportare uno spostamento patimoniale che, come tale, risulta ripetibile.

Il giudizio sul pagamento effettuato nei confronti dell’usurario non implica il preliminare storno della pretesa. Se così fosse, lo spostamento patrimoniale non sarebbe giudicabile come un “pagamento”, che è nozione usata dall’art. 2033 cod. civ. nel significato ampio di trasferimento a fini astrattamente (o apparentemente, appunto) solutori. Si tratta di nozione che sottende una astratta situazione di corrispettività o d’obbligo a cui far fronte immediatamente o ad una certa scadenza (in tal senso va letto l’aggettivo “dovuto” usato dalla norma), che però (e in ciò consiste il carattere indebito) risulta sorretta da un titolo invalido o privo di efficacia. Sullo sfondo della norma vi è, per l’appunto, l’astratta apparenza di un obbligo da adempiere.

Stornare quell’obbligo prima di apprezzare il trasferimento patrimoniale finirebbe per alterare anche il giudizio sul carattere solutorio di quel trasferimento. Che, infatti, nella sentenza in commento, era solutorio nella realtà effettiva del confronto banca/cliente e diviene, invece, ripristinatorio nella realtà manipolata dal CTU del processo.

In altri termini, lo storno preliminare del titolo nel giudizio di indebito rischia di far qualificare la rimessa come pagamento intervenuto non su titolo invalido, ma in assenza totale di qualsiasi titolo (perché già stornato). Si tratta di due realtà di fatto diverse, che, fra l’altro, comportano un trattamento differente sul piano probatorio (perché una cosa è provare che il titolo contrattuale era nullo, altra che non vi fosse in assoluto alcun titolo contrattuale).

Infine, non si può dire che la nota decisione delle S.U. n. 24418/2010 (quella che stabilì che per le rimesse di natura solutoria il termine di prescrizione inizi a decorrere dal momento del loro accreditamento in conto e non da quello della chiusura del rapporto), richiamata dalla sentenza in commento, avesse dettato qualche principio a favore di una valutazione della rimessa sul saldo rivisto dal CTU.

Anzi, questa decisione di S.U., laddove afferma che “l’unitarietà del rapporto contrattuale di conto corrente ed il fatto che esso sia destinato a protrarsi ancora per il futuro non impedisce di qualificare indebito ciascun singolo pagamento non dovuto, se ciò dipende dalla nullità del titolo giustificativo dell’esborso, sin dal momento in cui il pagamento medesimo abbia avuto luogo”, chiarisce che il giudizio sul pagamento “dipende” sempre dalla nullità del titolo, ossia, non può essere valutato in maniera avulsa dall’indebito.

Le stesse S.U., ancora, hanno chiarito che il pagamento oggetto di indagine può dirsi indebito solo “in conseguenza dell’accertata nullità del negozio giuridico in esecuzione al quale è stato effettuato“. Ossia, che il pagamento dell’indebito contrattuale presuppone sempre un titolo in forza del quale il trasferimento venga eseguito. La rimozione preliminare del titolo contrattuale, invece, toglie di mezzo anche la ragione originaria (la causa giuridica) di quel pagamento, che, come detto, muta da pagamento in esecuzione di un titolo contrattuale invalido, in pagamento in assenza totale di un titolo contrattuale.

Infine, ancora le S.U., nelle note conclusioni riguardanti il termine di decorrenza della prescrizione in caso di rimessa che insista su un saldo attivo o su un accordato non interamente utilizzato, sembrano presupporre che il pagamento possa essere valutato solo sul saldo nominale (viziato o meno che sia) del rapporto: “Di pagamento, nella descritta situazione, potrà dunque parlarsi soltanto dopo che, conclusosi il rapporto di apertura di credito in conto corrente, la banca abbia esatto dal correntista la restituzione del saldo finale, nel computo del quale risultino compresi interessi non dovuti e, perciò, da restituire se corrisposti dal cliente all’atto della chiusura del conto“.

Se seguissimo il ragionamento della decisione in commento e stornassimo preliminarmente gli interessi non dovuti, non si potrebbe più dire che il cliente li abbia “pagati” e l’azione andrebbe qualificata non più come azione di ripetizione di quegli interessi, bensì come azione di ripetizione di un versamento in assoluto, per alcun titolo – nemmeno invalido – dovuto.