Scoppia la febbre dei crediti «unlikely to pay», con quasi tutte le banche intente a vendere piccoli o grandi pacchetti a investitori.

I crediti «unlikely to pay» (Utp), definiti in italiano «inadempienze probabili», sono i finanziamenti verso società che si trovano in difficoltà finanziaria. Non sono ancora decotti, come quelli catalogati dalle banche come «sofferenze» (o Npl), ma non sono neppure sani. Sono crediti non rimborsati, ma con sottostanti aziende ancora vive e magari salvabili. Infatti, alcuni di questi crediti riescono a tornare «in bonis», cioè a rientrare nella normalità del ciclo creditizio, mentre altri diventano sofferenze.

Nel 2018, spiega Pwc, su 100 euro di Utp, 20 sono tornati alla condizione di performing o sono stati recuperati, mentre 14 sono finiti nel calderone dei “bad loans”, ovvero le sofferenze. Il guaio è che a diventare Utp, ogni anno, sono anche il 15% di crediti bonis e il 4% dei past due (scaduti). Morale: ciò che esce dalla porta, rientra dalla finestra. E così la massa di Utp in portafoglio fatica ad essere smaltita.