symbol of european union on banknote

Cancellare buona parte del debito pubblico detenuto dalla Bce con un tratto di penna. Sarebbe bellissimo, se solo la moneta emessa da una banca centrale costituisse un elemento dell’attivo del proprio bilancio. Se funzionasse così, saremmo di fronte a qualcosa di magico. 

Ma non funziona così. E c’è una ragione precisa.

Se il carattere di debito della moneta era scontato nel passato, quando vigeva la regola della convertibilità in oro (ricordate sulle vecchie banconote in Lire la dicitura “Pagabili a vista al portatore”?), oggi tale natura non è mutata.

Ieri si convertiva oro, oggi si con certe fiducia. La moneta è un debito di fiducia sul fatto che l’autorità preposta sia in grado di assicurarne il valor enel tempo. Per questo oggi il valore di una moneta riflette un po’ il valore della comunità e del mercato in cui viene emessa.

Se considerassimo la moneta emessa un elemento dello stato attivo del patrimonio della banca emittente, alla stessa stregua di un bene collocato sul mercato da una società commerciale, la moneta perderebbe due delle sue funzioni principali: quella di riserva di valore e quella di mezzo di pagamento.

Considerare la moneta come elemento dell’attivo della banca emittente, finirebbe paradossalmente col riversare una situazione di debito in capo al prenditore, che per quella frazione di attivo dovrebbe in qualche maniera sostenere un costo.

La moneta non rappresenta, invece, un elemento dell’attivo della banca emittente, bensì il contrario. La moneta costituisce una riserva di valore ed un mezzo di pagamento – ossia un elemento dell’attivo del patrimonio del suo possessore e non dell’emittente – proprio in quanto vi corrisponda una passività in capo all’emittente.

Si prenda ad esempio l’ultimo bilancio della Banca d’Italia. La moneta costituisce una passività (c.d. liability base), iscritta al passivo dello stato patrimoniale alla voce ”Banconote in circolazione”, che al 31.12.2019 valeva euro 201.628.969.740, che viene pareggiata da un corrispondente accantonamento di attivi (c.d. earmarkable, come, ad esempio, i crediti da rifinanziamento a istituzioni creditizie per operazioni di politica monetaria, i titoli detenuti per finalità di politica monetaria, i crediti intra eurosistema equivalenti al trasferimento delle riserve alla Banca centrale europea o l’oro, anche se l’oro è considerato infruttifero).

Cancellare dall’attivo i titoli di debito pubblico (rinunciando così ai rispettivi crediti) genererebbe una perdita patrimoniale che certo non potrebbe essere colmata dall’emissione di nuove passività monetarie, poiché queste non farebbero altro che aumentare il buco di bilancio. 

Cancellare dall’attivo i titoli di debito pubblico avrebbe poi l’effetto deleterio di sottrarre alla banca centrale la sua principale fonte di guadagno. Si prenda l’ultimo bilancio della Banca d’Italia. La sua principale fonte di ricavi è data dal reddito monetario, definito dall’art. 32, paragrafo 2 dello Statuto del SEBC, come il flusso di interessi generato dalle attività detenute in contropartita delle banconote in circolazione o, più in generale, della base monetaria. L’insieme dei frutti generati da tali attività – che per l’appunto fanno da contropartita alla passività sottesa all’emissione di moneta – viene accentrato a livello europeo alla BCE e da questa redistribuito fra le banche centrali nazionali in proporzione alle rispettive quote di partecipazione (per il 2019 il risultato netto fra devoluzione alla BCE e redistribuzione è stato per la Banca d’Italia di euro 1.372 milioni; cfr. voce 5 del Conto economico del bilancio 2019). Nel SEBC il reddito monetario così generato viene poi trasferito dalle banche centrali ai singoli Stati.

Eliminare titoli di stato avrebbe pertanto l’effetto di privare la banca centrale della fonte di reddito derivante dai relativi flussi di interessi.

In sostanza, lo scenario condurrebbe al default dell’istituto emittente o alla necessità per le banche aderenti al sistema (e quindi per gli Stati) di ritrasferire in qualche modo risorse (e quindi saremmo daccapo).

Non è una questione di arbitrio, di noiose regole contabili, ma proprio di natura della moneta.

L’abbandono del sistema Gold standard, che durò fino al 1971, quando lo Smithsonian Agreement mise fine agli accordi di Bretton Woods, non significa che la natura della moneta sia cambiata.

Se concettualmente la moneta non costituisse un debito dell’emittente, essa non potrebbe assolvere alle sue due funzioni. Come ieri era obbligato a convertire in oro, oggi l’emittente è obbligato ad assicurare la funzione di riserva di valore della moneta, ossia a garantirne il valore nel tempo all’interno di un delicato sistema di regole ed equilibri.

“La moneta d’oro è un avanzo barbarico” sosteneva Keynes. “Tutti noi” – aggiungeva – “dal Governatore della Banca d’Inghilterra in giù, ci preoccupiamo soprattutto perché sia garantita la stabilità degli affari, dei prezzi e del mercato del lavoro e, costretti a scegliere, non vorremmo certo sacrificare questi scopi al sorpassato dogma secondo cui il valore dell’oro doveva essere sempre di 3 sterline, 17 scellini e 10 denari e mezzo per oncia. I sostenitori dell’antico sistema non si avvedono che esso è molto lontano dallo spirito e dalle necessità dei tempi nuovi. La moneta non metallica “regolata” si è imposta senza che ce ne accorgessimo” (in La Riforma Monetaria, traduzione di Piero Sraffa, 1925, pp. 221-222).

Sarebbe bellissimo cancellare con uno storno contabile il debito.

Ma, come insegnava Antoine-Laurent de Lavoisier, nulla si crea, nulla si distrugge e tutto si trasforma.