Il rapporto Reviving and Restructuring the Corporate Sector Post-Covid del Group of 30 presieduto da Mario Draghi affronta molte questioni cruciali che attengono al rapporto fra sussidi pubblici e imprese. I policy makers dovranno scegliere come collocare ingenti risorse e quali imprese favorire. Fra queste, non andrebbero agevolate le c.d. imprese zombie.
Chi sono le imprese zombie
Le imprese zombie sono imprese che non sono più in grado di coprire i costi a servizio del debito con i profitti correnti e che dipendono dai creditori per la loro sopravvivenza.
Il termine “imprese zombie” è stato coniato per indicare le imprese sostenute dalle banche giapponesi durante il cosiddetto “Decennio perduto”, il periodo successivo al crollo della bolla dei prezzi del 2001. Diversi studi suggeriscono che queste imprese abbiano contribuito alla stagnazione economica del Giappone, distorcendo la concorrenza sul mercato e deprimendo i profitti e gli investimenti in imprese sane. Il concetto è stato successivamente utilizzato altrove, anche sulla scia della crisi finanziaria globale e con riferimento alle economie cinesi ed europee.
Adesso si teme che il sovraccarico di debiti del settore aziendale sussidiato in risposta a Covid-19 possa creare una nuova ondata di imprese zombie, con conseguenze dannose per le prospettive di ripresa economica del sistema nel suo complesso.
I morti che camminano giapponesi
Si è appurato che in Giappone le imprese zombie siano proliferate a causa dei numerosi prestiti effettuati dal sistema bancario in favore di soggetti fondamentalmente insolventi. Con tali prestiti veniva confermato un merito creditizio che in realtà non esisteva, ma in tal modo il sistema bancario riuscì ad evitare sia di far emergere perdite a bilancio che avrebbero fatto scendere i livelli di capitale sotto i parametri richiesti, sia il contraccolpo pubblico e politico che avrebbero incassato per aver negato credito alle imprese in difficoltà. Emblematiche di quel periodo sono rimaste le parole dell’allora Ministro delle Finanze, Takeo Hiranuma, che dichiarò che Daiei, un’azienda che impiegava 96.000 persone, fosse “troppo grande per fallire”.
Paradossalmente, le imprese avevano più probabilità di ricevere credito con bilanci deboli o all’interno del medesimo gruppo di imprese. Il calo dei tassi di interesse durante la crisi economica fece il resto, sostenendo la proliferazione delle imprese zombie con la riduzione delle tensioni finanziarie e l’allontanamento di ristrutturazioni e fallimenti.
La questione dei prestiti in sofferenza è stata esacerbata dalle autorità politiche e di regolamentazione giapponesi, perché hanno evitato che si imponesse una riforma o una ristrutturazione del sistema bancario, annunciando, al contrario, che non sarebbe stato necessario denaro pubblico per assistere le banche ed affermando addirittura che la questione “sarebbe finita nel giro di poche settimane”.
Caballero, Hoshi, e Kashya (2008), analizzando i dati della Borsa di Tokyo, hanno stimato che tra il 1981 e il 2002 quasi un terzo delle imprese presenti nel listino potessero classificarsi come imprese zombie. La loro analisi ha stimato che la crescita dell’occupazione, la produttività media del settore e gli investimenti sarebbero stati più elevati senza la presenza di imprese di questo genere.
I settori con il maggior numero di imprese zombie presentavano inoltre prezzi più bassi e salari più alti, una crescita limitata delle attività più redditizie e una riduzione significativa dei profitti delle nuove imprese, creando in tal modo barriere all’ingresso.
Molte di queste imprese si sono comunque riprese negli anni 2000. Uno studio condotto sulla ripresa delle imprese zombie giapponesi ha rilevato che la combinazione di una ristrutturazione aziendale e di un ambiente macroeconomico positivo ha contribuito al rilancio. In particolare, la riduzione del numero di dipendenti, la cessione di attivi e la concentrazione delle perdite in partite straordinarie sono state le strategie adottate dalle imprese giapponesi che hanno favorito la loro ripresa.

La proliferazione delle imprese zombie
Prima ancora delle sfide poste da Covid-19, il concetto di imprese zombie era stato riutilizzato nel contesto della crisi finanziaria globale e, più recentemente, dell’economia cinese.
Uno studio incentrato su 11 paesi europei a seguito della crisi del debito sovrano del 2012, ha rilevato che una presenza maggiore di imprese zombie crea un eccesso di capacità produttiva, il che, di conseguenza, genera una riduzione del markup medio delle imprese nei settori colpiti, nonché una riduzione dei prezzi dei prodotti, degli investimenti e della produttività, con un aumento dei costi dei materiali e della manodopera.
Uno studio recente ha rilevato che in quattordici economie avanzate, la prevalenza delle imprese zombie tra le imprese non finanziarie è salita al 12% tra la fine degli anni ’80 e il 2016, con aumenti specifici durante i periodi di recessione economica e di tassi d’interesse bassi. Le stime accademiche sulla percentuale di imprese zombie tra le imprese industriali cinesi nel periodo 2013-2014 variavano dal 3,3% al 13,46%.
L’apocalisse degli zombie
Finché i tassi di interesse rimangono bassi e i governi continuano a sostenere le imprese in difficoltà, il rischio di imprese zombie aumenta.
Uno studio recente ha rilevato che il numero di imprese zombie aumenta, inoltre, in corrispondenza della diminuzione delle dimensioni dell’azienda, il che aumenta le preoccupazioni circa un numero crescente di “invisibili” morti viventi tra le aziende più piccole.
La domanda che i politici devono affrontare diventa quindi: “Continuare a usare le finanze pubbliche per sostenere le aziende o lasciare che la distruzione creativa si manifesti à la Schumpeter?”