Lo ha ribadito di recente con ordinanza la Corte di Cassazione (Cass. civ., ord., sez. 6, 31 gennaio 2022, n. 2855).
Nella fase di merito i giudici di entrambi i gradi avevano ritenuto che il piano di rientro che il cliente aveva formalizzato con la banca valesse come ricognizione di debito, ritenendo perciò che la banca, attrice in via riconvenzionale, fosse dispensata dall’onere di provare il rapporto fondamentale e la sua validità, spettando invece al cliente dare dimostrazione dell’insussistenza del credito (e cioè della dedotta nullità e illegittimità degli addebiti operati dalla banca nel corso del rapporto).
Ricorrendo in Cassazione il cliente ha contestato la violazione e falsa applicazione dell’art. 1988 c.c., sostenendo che il piano di rientro fosse inidoneo alla produzione degli effetti di inversione dell’onere probatorio tipici della ricognizione di debito, dal momento che il credito doveva ritenersi viziato dalla eccepita nullità del contratto.
Per il cliente, in particolare, anche ammettendo la natura di riconoscimento di debito del piano di rientro, questo non avrebbe potuto comportare la sanatoria del contratto privo della forma scritta ad substantiam.
Per la Suprema Corte, in tema di conto corrente bancario, il piano di rientro concordato tra la banca ed il cliente, ove abbia natura meramente ricognitiva del debito, non ne determina l’estinzione, né lo sostituisce con nuove obbligazioni (salva sempre l’eventuale efficaca novativa che, però, va pattuita espressamente), sicché è valida ed efficace la successiva contestazione della nullità delle clausole negoziali preesistenti (sul punto cfr. anche Cass. 19 settembre 2014, n. 19792).
Per la Corte, “consistendo in una dichiarazione unilaterale recettizia che non integra una fonte autonoma di obbligazione, avendo piuttosto effetto confermativo di un preesistente rapporto fondamentale, la ricognizione di debito non può supplire alla mancata documentazione della pattuizione, soggetta alla forma scritta ad substantiam, da cui tragga origine il detto rapporto. Il principio è stato affermato in più occasioni con riguardo al tema degli interessi ultralegali: si è detto, al riguardo, che per la costituzione dell’obbligo di pagare interessi in misura superiore a quella legale è necessaria la forma scritta ad substantiam e che perciò è a tal fine inidonea una ricognizione del debito, atto successivo alla costituzione di detto obbligo (Cass. 20 ottobre 2003, n. 15643; Cass. 14 gennaio 1997, n. 280; Cass. 16 marzo 1987, n. 2690)“.
Quindi, “Alla stessa conclusione deve pervenirsi con riguardo alle altre pattuizioni, regolanti le condizioni praticate al cliente, contenute nei contratti bancari: i quali, a norma dell’art. 117 t.u.b., devono essere redatti per iscritto (comma 1), a pena di nullità (comma 3)“.
La Corte di merito non avrebbe, allora, potuto accogliere la domanda riconvenzionale della banca sulla scorta del piano di rientro di per sé: a fronte della deduzione attorea, da essa stessa richiamata, secondo cui ricorreva «l’inesistenza del contratto scritto» (pag. 7 della sentenza impugnata) e a fronte, altresì, della contestazione, da parte della correntista e dei garanti, dell’«applicazione di condizioni non contrattualizzate» (pag. 2 della sentenza), “essa avrebbe dovuto verificare se nella fattispecie si ravvisasse o meno una nullità del contratto per vizio di forma (per una fattispecie analoga, in materia peraltro diversa, cfr. Cass. 13 giugno 2014, n. 13506)“.
Pertanto, la ricognizione di debito sottesa ad un piano di rientro sospende l’effetto di inversione dell’onere probatorio rispetto all’eccepita nullità del rapporto e impone comunque la valutazione preliminare della validità dello stesso secondo le regole ordinarie.