La Corte di Cassazione Civile, sez. I, torna con la sent. n. 13846 del 22/5/2019 sulla questione della validità delle fideiussioni conformi allo schema ABI censurato dall’Antitrust bancaria nel 2005. In particolare, la Corte ha affrontato la questione della rilevanza della prova circa l’applicazione uniforme, in concreto, da parte del sistema bancario, del formulario contrattuale censurato.
Una delle difese delle banche, invero, attiene al fatto che il famoso provvedimento n. 55/2005 di Banca d’Italia non abbia accertato la sussistenza di una intesa in senso proprio, né, in subordine, l’applicazione in concreto dello schema adottato da parte dell’ABI, intervenendo in tempo utile, prima che la porposta dell’ABI potesse avere concreta applicazione e limitandosi a prescrivere a quest’ultima la modifica delle tre clausole specificamente censurate. La Corte, però, ha ritenuto una simile eccezione non rilevante.
“Anche a voler prescindere dal rilievo per cui il provvedimento n. 55/2005 presentasse un contenuto prescrittivo” – ha sostenuto la Corte – “essendosi in esso stabilito che l’ABI emendasse le proprie circolari con riguardo alle disposizioni di cui agli artt. 2, 6 e 8 dello schema contrattuale da diffondere presso il sistema bancario, trasmettendo preventivamente gli atti così corretti alla Banca d’Italia, ciò che rileva, ai presenti fini, è che i fatti accertati e le prove acquisite nel corso del procedimento amministrativo non siano più controvertibili, nè utilizzabili a fini e con senso diverso da quello attribuito nel provvedimento stesso”, così che, in sostanza, si deve ritenere che un’intesa rilevante per la legge antitrust sia stata effettivamente accertata con efficacia opponibile nei successivi giudizi civili.
Invero, “il principio di effettività e di unitarietà dell’ordinamento non consente di ritenere irrilevante il provvedimento amministrativo nel giudizio civile, considerato anche che le due tutele sono previste nell’ambito dello stesso testo normativo e nell’ambito di un’unitaria finalità: tanto più in considerazione dell”evidente asimmetria informativa tra l’impresa partecipe dell’intesa anticoncorrenziale ed il singolo consumatore, che si trova, salvo casi eccezionali da considerare di scuola, nell’impossibilità di fornire la prova tanto dell’intesa anticoncorrenziale quanto del conseguente danno patito e del relativo nesso di causalità’ (Cass. 28 maggio 2014, n. 11904 cit.)“.
Per la Corte “Quel che rileva è, dunque, l’accertamento dell’intesa restrittiva da parte della Banca d’Italia: non il fatto che, in dipendenza di tale accertamento, siano state pronunciate diffide o sanzioni. Infatti, ciò che assumeva rilievo dirimente, nella controversia portata all’esame della Corte d’Appello di Brescia, era la presenza o meno di un’intesa (nel caso di specie, la delibera ABI che adottò lo schema contrattuale, n.d.r.) tra imprese il cui oggetto o effetto fosse quello di impedire, restringere o falsare in maniera consistente il gioco della concorrenza all’interno del mercato nazionale o in una sua parte rilevante attraverso la fissazione di specifiche condizioni contrattuali“.
Per la Corte “Il dato costituito dalla rilevazione, da parte dell’autorità competente, dell’illecito concorrenziale va in particolare desunto dal contenuto sostanziale e complessivo del provvedimento amministrativo, non da singole locuzioni che, isolatamente assunte, possano presentare un significato ambiguo o fuorviante: così la portata dell’espressione secondo cui i richiamati artt. 2, 6 e 8 ‘contengono disposizioni che, nella misura in cui vengano applicate in modo uniforme, sono in contrasto con la L. n. 287/1990, art. 2, comma 2, lett. a)’ andava apprezzata verificando se il provvedimento avesse mancato di prendere posizione sull’esistenza dell’intesa restrittiva e, quindi, sulla diffusione, presso gli istituti di credito, dei testi negoziali comprendenti le citate clausole; ciò che il ricorrente ha specificamente negato, richiamando specifici passaggi del provvedimento stesso (nn. 49, 50, 57, 58, 60, 93)“.
In quest’ultimo passaggio la Corte sembra confondere un po’ il piano della individuazione della “intesa” e quello della sua eventuale “diffusione” in concreto, ma il senso del ragionamento appare chiaro nel passaggio successivo, in cui si attenua la necessità di verificare in concreto l’intensità della diffusione dell’illecito anticoncorrenziale.
In particolare, per la Corte il giudice d’appello avrebbe commesso un errore affermando che “non sarebbe provato che, contravvenendo a quanto prescritto dalla Banca d’Italia, l’ABI avesse egualmente diffuso il testo delle condizioni generali del contratto di fideiussione contenente le clausole che costituivano oggetto dell’intesa restrittiva (il che costituisce, appunto, eccezione frequente del mondo bancario, n.d.r.). Tale circostanza non è difatti decisiva. Quel che assume rilievo, ai fini della predicata inefficacia delle clausole del contratto di fideiussione di cui agli artt. 2, 6 e 8, è, all’evidenza, il fatto che esse costituiscano lo sbocco dell’intesa vietata, e cioè che attraverso dette disposizioni si siano attuati gli effetti di quella condotta illecita, come rilevato dalla cit. Cass. Sez. U. 4 febbraio 2005, n. 2207 (cfr. in tema anche Cass. 12 dicembre 2017, n. 29810, secondo cui ai fini dell’illecito concorrenziale di cui alla L. n. 287/1990, art. 2, rilevano tutti i contratti che costituiscano applicazione di intese illecite, anche se conclusi in epoca anteriore all’accertamento della loro illiceità da parte dell’autorità indipendente preposta alla regolazione di quel mercato). Ciò che andava accertata, pertanto, non era la diffusione di un modulo ABI da cui non fossero state espunte le nominate clausole, quanto la coincidenza delle convenute condizioni contrattuali, di cui qui si dibatte, col testo di uno schema contrattuale che potesse ritenersi espressivo della vietata intesa restrittiva: giacchè, come è chiaro, l’illecito concorrenziale poteva configurarsi anche nel caso in cui l’ABI non avesse contravvenuto a quanto disposto dalla Banca d’Italia nel provvedimento del 2 maggio 2005, ma la Banca Popolare di Bergamo avesse egualmente sottoposto all’odierno ricorrente un modulo negoziale includente le disposizioni che costituivano comunque oggetto dell’intesa censurata“.
Quest’ultimo è il passaggio più importante del ragionamento della Corte. Un ragionamento di favore per il cliente della banca che intenda contestare la garanzia rilasciata e che sembrerebbe ammorbidire la rigidità del regime probatorio che pone a carico del cliente la prova dell’applicazione e diffusione effettiva dell’intesa. In sostanza, per la Corte, ogni singola fideiussione che ricalchi lo schema dell’intesa vietata integrrebbe, di per sé, un atto rilevante di applicazione dell’intesa vietata, senza che sia necessario verificare in concreto la diffusione della stessa.
Tale conclusione parrebbe corroborata anche dal successivo passaggio chiarificatore della Corte, passaggio nel quale essa richiama la propria precedente ordinanza n. 30818 del 2018 (che è sembrata ritenere insussistente l’intesa in difetto della prova della sua applicazione unforme), chiarendo come quest’ultimo provvedimento “oltre a riguardare parti diverse dagli odierni contendenti, si occupa dell’onere della prova in tema di illecito antitrust, affermando il principio, che qui va certamente ribadito, per cui compete all’attore che deduca un’intesa restrittiva provare il carattere uniforme della clausola che si assuma essere oggetto dell’intesa stessa“. Rispetto a tale ordinanza (da tutti letta nel senso che imporrebbe al cliente la prova concreta – e piuttosto difficile – della diffusione effettiva, presso il sistema bancario, dello schema fideiussiorio censurato), la sentenza in commento sembra introdurre una distinzione rilevante fra “uniformità” e “diffusione” delle clausole censurate. L’uniformità risulterebbe in re ipsa nella deliberazione ABI dello schema poi censurato (schema di N.B.U., per definizione nato per essere, appunto, uniforme), mentre nel caso di intese non consistenti in deliberazioni di associazioni di categoria, la prova dell’uniformità implicherebbe anche quella della sua diffusione. In altri termini, sembra di potersi sostenere che in caso di intese coincidenti con deliberazioni di associazioni di categoria, la categoria della “uniformità” dell’intesa possa assorbire la valutazione circa la sua concreta “diffusione”, mentre, nel caso di intese restrittive fra due o più imprese, andrebbe provato che l’uniformità sia conseguenza della concreta adoazione (e diffusione, appunto) dei patti illeciti (“Ciò che andava accertata, pertanto, non era la diffusione di un modulo ABI da cui non fossero state espunte le nominate clausole, quanto la coincidenza delle convenute condizioni contrattuali, di cui qui si dibatte, col testo di uno schema contrattuale che potesse ritenersi espressivo della vietata intesa restrittiva“).
Nel passaggio più sopra riportato, poi, la Corte sembra prendere indirettamente posizione anche in merito alla disputa sulla portata della nullità della singola fideiussione (nullità totale o nullità parziale delle tre clausole censurate?), laddove essa riferisce il proprio ragionamento “ai fini della predicata inefficacia delle clausole del contratto di fideiussione di cui agli artt. 2, 6 e 8″. In tale inciso sembra darsi per scontata la nullità parziale delle singole clausole.
Il principio di diritto adottato in conclusione dalla Corte è il seguente: “In tema di accertamento dell’esistenza di intese restrittive della concorrenza vietate dalla L. 287/1990, art. 2, con particolare riguardo a clausole relative a contratti di fideiussione da parte delle banche, il provvedimento adottato dalla Banca d’Italia prima della modifica di cui alla L. 262/2005, possiede, al pari di quelli emessi dall’Autorità Garante per la Concorrenza, una elevata attitudine a provare la condotta anticoncorrenziale, indipendentemente dalle misure sanzionatorie che siano pronunciate, e il giudice del merito è tenuto, per un verso, ad apprezzarne il contenuto complessivo, senza poter limitare il suo esame a parti isolate di esso, e, per altro verso, a valutare se le disposizioni convenute contrattualmente coincidano con le condizioni oggetto dell’intesa restrittiva, non potendo attribuire rilievo decisivo all’attuazione, o non attuazione, della prescrizione contenuta nel provvedimento amministrativo con cui è stato imposto all’ABI di estromettere le clausole vietate dallo schema contrattuale diffuso presso il sistema bancario“.